La gloriosa terra osca (l’attuale Sannio e Irpinia, ma anche il Molise, parte della Lucania e dell’Abruzzo) non offre solo colline verdeggianti e aria buona, ma anche (tante) storie da raccontare. Le antologie Oschi Loschi raccolgono il meglio della narrativa “osca” contemporanea, senza condizionamenti di genere o stile, il tutto condito da una predisposizione al “losco” nel senso più ampio e allettante del termine.

giovedì 6 ottobre 2011

L'ispirazione è una sfoglia di cipolla.

Come nasce una storia? Anzi, come è nata la storia (nel senso di racconto) di Oschi Loschi? Lo abbiamo chiesto all'improvviso, e pure a tradimento, ad alcuni degli autori della seconda (attesissima) edizione dell'antologia sannita. I quali, prontamente e senza batter ciglio, hanno risposto in coro: "oschi cooosa?".

Donato Zoppo: «Sul treno per Bologna, nei dintorni di Castiglion Fiorentino, alle 14.30 del 12 febbraio 2011, con Iron & Wine nelle cuffie in attesa del loro concerto serale (unica data italiana), lo spettro di Dylan Zarrella si impadronisce di me. Quaderno da viaggio e penna alla mano, un quarto d’ora prima della fermata bolognese il racconto è finito.»

Stella Iasiello«Il racconto è stato ispirato da un caro amico scrittore piemontese: ogni riferimento a baci e assassinii, però, è puramente casuale, nessuno scrittore è stato importunato o ucciso durante la stesura di questo racconto.»

Alessandro Paolo Lombardo: «È tutto vero in questa storia. L’unico elemento inventato è lo specchio, che come tutti sappiamo non esiste. Non ero nemmeno sicuro sul nome da dare a questo oggetto fantastico, se specchio oppure riflettron.»

Isabella Pedicini: «In principio era il verbo. E, infatti, “Ore 15” nasce da uno spunto raccolto in una conversazione con una signora incontrata per caso in libreria. Ruminato lungamente, diventa un file word appositamente per questa antologia.»

Maria Elena Napodano: «Non sono io che vado a cercarmi le storie, sono loro che vengono da me. Come in questo caso, in cui non ho dovuto fare altro che addormentarmi (col prezioso contributo dello Spasmomen) e lasciare libero sfogo allo psicopatico che è in me. E che sogna di fare cose come queste.»

Federica D'Avanzo: «Dopo una digressione notturna da pendolare per scelta altrui, un losco poeta cupo e mesto mi propose di scrivere qualcosa in cambio di una vittoria a tressette. Scrissi un racconto ma persi comunque alle carte. Stranamente il racconto trasudava delusione e rabbia. Mai fidarsi dei loschi poeti, riescono a farti sentire migliore.»

Marcello Serino: «Il racconto nasce dall’esigenza di riabilitare la figura, spesso bistrattata, dei portieri di calcio. Sono loro che proteggono le nostre porte, le nostre speranze, sono loro che silenziosi incendiano i nostri sogni.»

Anna Lisa De Mercurio: «Try to shot from the hip (“Golden Rules of Lomography”).»

Giuseppe Di Gioia: «In periodi in cui gli eventi erano particolarmente avversi, gli antichi popoli Oschi istituivano un Ver Sacrum, manifestazione divinatoria in cui i primogeniti nati in primavera venivano resi sacri al dio Mamerte e costretti ad allontanarsi dalla propria gente e, guidati da un animale totem, a cercare altre terre da colonizzare. Oggi i loro discendenti rinnovano quel rituale. Alla ricerca di lavoro.»

Annamaria Porrino: «Virginia Woolf. Un punto fisso in un mare di punti roteanti, ispiratori della mia scrittura. Quando l’ho recensita, la sua stanza l’ho definita un utero, un bozzolo da cui uscire solo a formazione completata. Così ho pensato: se entro nella sua stanza mi concedo al suo grembo e da lì posso essere con lei quando scrive, dorme, silenzia, ma anche quando si avvia al fiume per annegarsi e salvarla. Non lei, ma la sua scrittura. Non chiedetemi come, ma avverto l’acqua. Le sue parole, ora, nelle mie. Vive, come lei.»

Paola Corona: «Le parole danzano sul foglio. C’è qualcuno che mi racconta storie, come con una bambina piccola prima di addormentarsi, che guida la mia penna, respira con la mia anima, si diverte a sbrindellare e a rattopparla con pezzi di realtà. Non mi addormento, come la bambina al racconto della buona notte. Io ascolto. Ascolto qualcuno che racconta storie

Giovanni Vergineo: «Questo racconto nasce da un viaggio in treno e da una poesia. Un giorno di pieno luglio stavo tornando dallo scavo archeologico di Fratte di Salerno. Era il primo scavo archeologico cui prendevo parte, ed era scomodissimo per me raggiungere quel posto: sveglia all'alba, ore di treno da Benevento, la mia città. L'ultimo giorno di scavo ero a pezzi e il ritorno fu terribile: causa interruzione della tratta ferroviaria, dovetti prendere un altro treno e cambiare un paio di volte. Tutto questo per percorrere meno di 70 km. Insomma, parto da Fratte alle 5, prendo un treno fino a Mercato S. Severino. Poi, pullman fino ad Avellino. Attesa di un' ora, poi treno fino a Benevento.
Lo scavo archeologico è un lavoro fisico: si deve materialmente lavorare la terra, scavare, spicconare, spalare, scarriolare. Inoltre, io dovevo sorbirmi un viaggio di ore tra andata e ritorno. La fatica forse mi aveva messo in una situazione recettiva, non so: ero sicuramente in una particolare disposizione dell'animo. Ero con la mia ragazza di allora: avevamo appena finito di litigare con il controllore che voleva farci la multa perché avevamo pagato il biglietto più del dovuto. Inoltre, per la fame avevo aperto con violenza un pacco di Ritz, spargendone una gran quantità in tutto lo scompartimento. Io, la mia ragazza, il controllore, il macchinista e i cracker salati eravamo gli unici abitanti di quel treno ridicolo, composto da una sola carrozza. A un tratto ci fermiamo nella stazione di un paesino: Tufo. Famoso per le miniere di zolfo. Interessante paradosso. Proprio di fronte alla stazione mi si para dinanzi l'ingresso della miniera abbandonata, con in cima il busto dello scopritore, Francesco di Marzo. Ne fui shockato. Ho sempre avuto attrazione per i luoghi abbandonati, per le wastelands e simili, ma non avevo mai visto niente di più bello di quella miniera. Era una catacomba del XX secolo, il simbolo della decadenza di un impero industriale. Anni dopo: spettacolo teatrale. Tema: la morte. Tutti a grattarsi i testicoli per buona parte del tempo. Poi, una ragazza recita questa poesia, che io ho poi posto come epigrafe:

Padre, mai potrai conoscere
l'angoscia che afflisse il mio cuore
per la mia disobbedienza, il momento che sentii
la ruota spietata della locomotiva
affondare nella carne urlante della mia gamba.
Quando mi portavano in casa della vedova Morris
sono riuscito a vedere la scuola nella valle
che marinavo per saltare di nascosto sui treni.
Ho pregato di vivere per almeno chiederti perdono -
e poi le tue lacrime, le tue rotte parole di conforto!
Dalla consolazione di quell'ora
ho guadagnato un'infinita felicità.
Fosti saggio a scrivere per me: sottratto al male futuro.
[Edgar Lee Masters, traduzione di Antonio Porta]
La vista della cava e la poesia si sono fuse nella mia mente creando un nocciolo duro, profondo, un desiderio inespresso di raccontare una storia. Che poi si è materializzata nel racconto, fusione fra la cava di zolfo di Tufo, Edgar L. Masters, l'archeologia, le ferrovie dello stato, i controllori bastardi, il teatro, i Ritz sparsi per il treno. E gli amori perduti dell'adolescenza.»

Ok, per adesso è tutto. E sì, Vergineo è logorroico.