Riportiamo l’approfondita analisi
di Oschi Loschi realizzata dalla dottoressa Angela Maria Pelosi, dirigente scolastica
dell'IC Mazzarella di Cerreto Sannita, in occasione della presentazione presso la Biblioteca del Sannio (lo scorso 28 aprile). Un
grande ringraziamento alla dottoressa, la cui arte oratoria ha coinvolto e
appassionato gli autori presenti e gli intervenuti all’incontro, resa solo in
parte dal testo scritto.
Questa sera parleremo di un libro
di racconti, edito dalla Never Mind di
Maria Elena Napodano dal titolo: “Oschi Loschi. Racconti solidi come castelli
di carte”.
Come vedete c’è già molto da dire
sul nome degli autori e sul titolo. Allora diciamo subito che gli autori hanno
scelto di chiamarsi come le antiche genti che abitavano il territorio del Sannio, dell’Irpinia, del
Molise e parte della Lucania e dell’Abruzzo, gli oschi appunto. Hanno
accompagnato il sostantivo con un aggettivo particolare, forse, come loro
affermano, per esigenze di rima oppure per alludere al loro modo simpatico di
dichiarare la propria vocazione al clandestino, al sotterraneo, al torbido,
all’underground, ovviamente in senso letterario.
È una raccolta di 20 racconti
brevi, scritti da 20 autori diversi, giovani, tutti del territorio sannita, e
che pertanto offrono uno spaccato di esistenza giovanile della nostra terra e
anche, in particolare della nostra città capoluogo, Benevento. I temi dei
racconti sono differenti, come anche i loro stili appunto perché l’opera nasce
come una tela tessuta in modo assolutamente libero da ciascuno e da tutti.
L’unico file rouge che in qualche
modo percorre le storie sono i semi delle carte da gioco napoletane che le ordinano e le raggruppano. Coppe: l’ebbro
destino e le sue ombre inquiete; Spade: colpi al cuore per placare la sete di
vendetta; Denari: valori che non si custodiscono in cassaforte; Bastoni:
castighi divini per chi non se li cerca.
Si parte dai racconti delle coppe
ricolme di destino e di atmosfere metropolitane, in cui si muovono figure
solitarie collocate fra il reale e il metafisico, come il personaggio di Dio,
nel racconto di Flavio Ignelzi, per passare attraverso un tango milonga ad
affrontare l’ebbrezza dello sconcerto di
Filippo, nel racconto di Emilio Fabozzi, il quale crede nel colpo di fulmine e
strafatto di Jack Daniels, va in giro
con una magliettina bianca a mezze maniche con su dipinta la faccia stilizzata di Woody Allen e una scritta sul
petto che recita “credi nel colpo di fulmine o devo passare di nuovo?”. Poi è
la volta del trionfo di Specchia di Alessandro Paolo Lombardo. Qui il gioco
speculare si fa intrigante. Specchia è il riflesso di Antea o Antea il riflesso
di Specchia? A volte la realtà speculare è utile per esaltarci, sebbene possa
sfuggirci di mano e diventare una rivale perfida. Tuttavia utile, se può sostituirci
nel dolore. Isabella Pedicini ci riporta in città, in un pomeriggio qualunque,
alle ore 15, quando il ritrovamento di un oggetto, avvenuto per caso, mette in
moto avvenimenti inquietanti e stimola
presenze inconsuete. In un tempo che scorre troppo velocemente. La sezione
Coppe si chiude con il racconto di Daniele Viola, “Due bottoni”, un bozzetto
malinconico intriso di pensieri, odore di terra, freddo e solitudini.
Anna Lisa De Mercurio con “Camera
Oscura”, apre la sezione Spade. È una storia costruita per scatti, per
fotografie, immagini che si fanno via via sempre più taglienti. E la storia
prende un corso imprevedibile. L’ultimo scatto è il più amaro. “Greta strizza
gli occhi” è il racconto di Maria Elena Napodano, che trascina il lettore in una
atmosfera al limite tra il sogno e l’assurdo, inchiodandolo alla lettura, sotto
la minaccia delle punizioni di Greta, una bimba killer che potrebbe strizzare
gli occhi da un momento all’altro. “Nero Latte” di Stella Iasiello ci riporta
nella città stregata di Benevento, dove aleggia la magia, e dove un oscuro
destino può anche assumere il significato di una magica felina vendetta. Le
spade continuano a ferire la sensibilità del lettore con il racconto di
Giovanni Vergineo “Binario morto”, nel quale si mescolano ricordi
adolescenziali, rimorsi, paure. La storia che per certi versi richiama
suggestioni verghiane, sembra possedere la forza catartica di una confessione.
L’amore, l’amicizia, la vita stessa non sono altro che un binario morto.
Marcello Serino, in “Un amore che brucia” giocando sul doppio senso dell’amore
come sentimento che brucia l’anima, ci racconta del portiere di calcio Gigio
Cerqueti, protagonista del racconto, che invece ha il desiderio profondo di
bruciare il suo amore nel senso letterale del termine. Infatti, egli non cessa
mai, giorno dopo giorno, di pensare al momento in cui darà alle fiamme la sua
fidanzata, per il solo desiderio di sentire il dolce profumo dell’amore che
brucia. L’epilogo del racconto è davvero di fuoco!
La sezione Denari è introdotta da
Umberto Di Lorenzo con il racconto “Quello che rimase del cielo”, una delicata
e toccante storia di una famigliola messa di fronte ad una prova esistenziale
troppo grande e dolorosa. Il cielo a volte si nega nella sua immensità e regala
agli uomini solo una piccola parte di sé.
La sezione procede con “Da
consumarsi preferibilmente entro l’attimo appena trascorso” di Federica
D’Avanzo, un breve racconto molto denso, a struttura circolare. Al centro la
protagonista concentrata su una nostalgia.
Tutt’intorno spazi chiusi e un gran desiderio di ritrovare la forza di guardare dritto davanti
a sé.
Annamaria Porrino ci trasporta
nel mondo di Virginia Woolf. Attraverso una narrazione onirica, l’autrice fa
rivivere la scrittrice britannica e ne tratteggia gli aspetti salienti della
sua personalità, fino al giorno fatale del suo suicidio nelle acque del fiume
Ouse. Il titolo del racconto allude all’opera saggistica della Woolf, “Una
stanza tutta per sé”.
“Tracce di impronte granitiche” è
il racconto di Paola Corona in cui sogno e realtà si confondono. E sul limitare
delle due dimensioni c’è la musica che fa da demiurgo e prepara per la
protagonista Noemi, una nuova realtà, che ha come preludio la luce di due occhi
neri.
Il racconto dal titolo “Ma quale
falce ma quale martello, paletta secchiello il simbolo più bello” di Filippo
Ciasullo chiude la sezione denari. L’impianto del racconto è scenico. La storia
evolve su un dialogo molto fitto tra un papà e la figlioletta. Il luogo della
storia è la villa comunale di Benevento. Tutto sembra pulito, innocente. Ma
improvvisamente emerge il losco dove meno il lettore se lo aspetta. Come
risolvere? Basta raccontare… magari cominciando dal principio, da Giove, per
esempio!
Apre la sezione Bastoni “Il
circolo delle Quinte” di Donato Zoppo, nel quale il protagonista Dylan Zarrella
trascina il lettore in un lunghissimo
vortice disperatamente simpatico di bastonate musicali e giornalistiche tra
sorrisi e riflessioni amare.
In “Ver sacrum” di Giuseppe Di
Gioia, l’autore prende spunto dal ver sacrum, una manifestazione divinatoria
delle antiche popolazioni italiche, che costringeva alcuni giovani prescelti
alla migrazione forzata, per affrontare il triste tema della mancanza di lavoro
nella nostra terra. Marco le prova tutte, poi partirà come una vittima
sacrificale, senza voltarsi indietro.
Luigi Furno è l’autore di “Si è
ammazzato uno” un racconto un po’ visionario e un po’ inquietante sul senso
dell’esistenza. A tratti emergono segmenti di lucidità che guidano e fanno
avanzare la trama, ma sono solo
parentesi, in mezzo a un mare di immagini e pensieri che sembra uno scroscio impetuoso di un
flusso di coscienza inarrestabile. E alla fine il lettore non potrà fare a meno
di chiedersi: ma vivere non è forse pericoloso?
Con “2958 km (estate 2004)” di
Massimo Varchione, ci troviamo di fronte ad un racconto on the road, in viaggio
attraverso le città del sud su un camion
per un tour tra spettacoli e palchi da montare e smontare, in compagnia di una
umanità di passaggio, conosciuta e subito lasciata, nella quale cercare il
senso delle proprie radici, mai sentite così violentemente necessarie, quanto
più ci si allontana da esse.
Chiude la sezione bastoni e la
raccolta il racconto “Maggio fiorentino” di Ernesto Razzano, che ci riporta a
Firenze nella primavera del 1993, presso l’accademia dei Georgofili, dove nella
notte fra il 26 e 27 maggio l’intero nostro Paese prese una delle bastonate più
dolorose della nostra storia. Razzano,
con delle pennellate precise ci racconta lo scorrere naturale della vita
intorno a quello che sarà l’epicentro del dolore. Un modo molto riuscito per
far riflettere il lettore. Un grido perché la giustizia non lasci impunito chi
ha sfregiato Firenze e tutti noi per sempre.
Ho letto questo libro tutto d’un
fiato, affascinata dal ritmo della narrazione, dalla diversità dei personaggi e
delle situazioni descritte, dagli stili essenziali e lineari. Anche la lingua è
efficace, contemporanea, ricercata quanto basta. Già il titolo risulta
immediatamente accattivante e intrigante poiché evoca immediatamente un
ossimoro: racconti solidi come castelli di carte. I castelli di carte non sono
affatto solidi, vivono in bilico perennemente, pronti a crollare al primo
soffio o alla prima instabilità. I racconti, invece, ben 20, che compongono
l’opera sono, al contrario, solidissimi. Per di più, aggiungerei, ritenendo di
essere nel giusto, che essi presentano una compiutezza e una maturità
rispondenti a uno dei canoni letterari
notoriamente più accreditati dalla critica:e cioè che la narrativa deve
avere come suo vero fine la scoperta e la registrazione del mondo dell’uomo. Il
libro degli Oschi loschi, ripropone il mondo attraverso il gioco misterioso
dell’immaginazione, e questo mondo ci accoglie con un meccanismo complesso di
specularità e di rimandi spaziali e temporali.
Il libro nasce nella terra osca, vissuta dagli
autori come una condizione psicologica e sociale, prima che geografica, con le
sue contraddizioni, le sue durezze, con la sua umanità variegata, nella quale
gli autori affondano la loro indagine alla ricerca della verità delle passioni
totali, di una condizione autentica di vita.
È una terra che si narra, ma che
nello stesso tempo è attraversata da schegge di universalità. Le storie osche, pensate da autori oschi, alla
fine superano i confini della terra osca e si ritrovano a parlare dell’universo
mondo all’universo mondo. E ciò accade magicamente grazie esattamente alla
narrazione, perché solo la narrazione ha il potere di attraversare un mondo e
di connetterlo all’universalità del sentire umano. Venti giovani oschi, una
pluralità di voci, decidono di partire da un punto fermo, per narrare. Dalla
propria terra. Da se stessi, dalla propria realtà, dai propri sogni, poi
scoprono, noi scopriamo, che in realtà essi con la molteplicità delle loro
storie stanno parlando non solo dalla
propria terra, ma alla propria terra, restituendole un altrove universale,
fatto di sentimenti, paure, ironie, dolori, assoluti ed eterni. Ecco la magia,
la potenza del racconto. Le storie, nella loro varietà, frantumano la fissità
dell’unità del tempo e del luogo, e costruiscono incredibili vie di connessione
tra il particolare e l’universale.
Credo che il senso vitale di
questo libro sia proprio questo.
Maggiormente più apprezzabile se
si tiene conto che questi giovani autori sanniti pubblicano in un momento di
crisi non solo economica, ma soprattutto culturale come quello che stiamo
vivendo attualmente in Italia.
Raccontare è stato e sarà sempre
un bisogno insostituibile dell’uomo. Fin dall’antichità, egli ha raccontato
dapprima oralmente, poi, da Omero in poi,
fissando le sue storie con la scrittura. Raccontare è un po’ come
vincere la morte, l’oblio. Non a caso anche nel linguaggio comune quando si supera un pericolo si dice:
l’importante è che lo si può raccontare! Il racconto ci rende vincitori, ci
rende immortali e ci apre al resto dell’umanità, di oggi e di domani.
Un’opera plurale, quella degli
oschi loschi, condotta a più mani sapientemente dentro i meccanismi
narratologici, con effetti che stimolano la curiosità, attivano la coscienza,
muovono le emozioni.