La gloriosa terra osca (l’attuale Sannio e Irpinia, ma anche il Molise, parte della Lucania e dell’Abruzzo) non offre solo colline verdeggianti e aria buona, ma anche (tante) storie da raccontare. Le antologie Oschi Loschi raccolgono il meglio della narrativa “osca” contemporanea, senza condizionamenti di genere o stile, il tutto condito da una predisposizione al “losco” nel senso più ampio e allettante del termine.

giovedì 28 giugno 2012

NARRAZIONI E NARRATORI DALLA TERRA DEL PREMIO STREGA


Giovedì 5 Luglio 2012, alle ore 20, presso “Il Vinocolo”, Vico G. Vetrone 2, Foglianise (BN), si terrà l'incontro NARRAZIONI E NARRATORI DALLA TERRA DEL PREMIO STREGA.

Interverranno: Maria Pia Selvaggio, Rita Pacilio, Maria Grazia Porceddu, Giustino Pennino, Adriana Pedicini e il collettivo Oschi Loschi, salutati dalle Istituzioni locali.
Modererà Maria Elena Napodano.


Narratori sanniti che si ritrovano ad uno speciale appuntamento al Vinocolo di Foglianise: sul tavolo alcuni degli annosi dubbi che attanagliano uno scrittore proveniente dalla terra che ha dato i natali a quello che è forse il più importante premio di narrativa del nostro Paese.
In un territorio provinciale che provocatoriamente indicheremo come, nel suo complesso, meno popoloso del solo quartiere Vomero di Napoli, quanto è più palpabile il calo delle vendite dei libri, considerato che ogni anno in Italia se ne pubblicano circa 60.000 mentre, secondo l’ISTAT, un italiano su due non ne legge neanche uno?
La spasmodica ricerca, da parte delle case editrici, di prodotti librari in grado di trainare le vendite, spesso a scapito dei contenuti, ha dato la stura all’esplosione dei fenomeni dell’auto-pubblicazione e del vanity press, i quali, spesso e volentieri, fomentano velleità di sedicenti scrittori senza contribuire ad un ritorno alla qualità. Eppure (Sugarpulp nel Triveneto insegna) talvolta l’editoria indipendente può rappresentare quella risposta convincente alle genuine necessità narrative locali e per quei lettori interessati a nuove forme di espressione letteraria, radicate in un territorio ma non per questo in esso imbrigliate, sia come tradizione narrativa che per la formula linguistica adottata. Un tema, quest’ultimo, molto interessante anche dal punto di vista delle modifiche esercitate dalle nuove forme di scrittura sul linguaggio.
Altra grande sfida è l’opportunità costituita dall’imminente proliferare dell’editoria digitale (anche sotto forma di self-publishing), che secondo John B. Thompson, professore di sociologia all’università di Cambridge continuerà a crescere, offrendo magari innumerevoli possibilità di emergere, a quelle valide penne finora ignorate dai grandi circuiti dell’editoria perché “relegate” in bacini territoriali di scarso interesse numerico, e in questo senso il Sannio, dove pure è nato il Premio Strega, costituisce un caso emblematico.
In un momento storico in cui la grande distribuzione sarà perciò costretta a riorganizzarsi, un valore aggiunto sempre più peculiare sarà costituito dalla cosiddetta “bibliodiversità”, ossia l’indispensabile diversificazione della produzione editoriale messa a disposizione del lettore. Chissà che questo, insieme all’avvento degli e-book, non comporterà anche un riequilibrio nella (finora) impari competizione tra piccoli e grandi editori.

sabato 23 giugno 2012

Adriana Pedicini su Oschi Loschi


Adriana Pedicini, già docente di lettere classiche del Liceo Classico "P. Giannone" di Benevento, ha pubblicato la raccolta di racconti "I luoghi della memoria" (Arduino Sacco Editore, 2011); suoi racconti e poesie sono presenti in diverse antologie. Scrive per blog e magazine on-line: Sul Romanzo, RomaCapitaleMagazine, Lib(e)roLibro, Arteinsieme.
A voi le sue impressioni dopo la lettura del nostro losco libercolo.


Antitesi e ossimori sono già nel titolo della raccolta di racconti del volume di autori vari Oschi Loschi, dal sottotitolo Racconti solidi come castelli di carta.
Ancora, la suddivisione in carte di semi diversi vorrebbe tracciare dei confini in cui relegare i racconti cinque per volta.
Ma capita che talvolta qualcuno di essi esca fuori dalla norma, dallo status in cui è stato relegato.
Non si sa allora se ci si trovi più di fronte a un dipinto di Botero o di fronte a un quadro di Modigliani con i suoi colli esageratamente allungati.
Il dato certo è che qualunque sia la tipologia della comunicazione narrativa ci troviamo (non sempre) di fronte a una sorta di frattura degli schemi consueti, dei linguaggi sentiti come obsoleti, delle strutture narrative ormai sorpassate, di regole linguistiche asfissianti. Proprio questo rappresenta, parlando in generale, il pregio dell’opera: originalità e voglia di sperimentare.
Intendiamoci: non ci troviamo di fronte a racconti “alieni”, ma di fronte a racconti altri, diversi dalle storie melliflue tanto amate dagli adolescenti di sempre, con situazioni scontate e rassicuranti, con tratti narrativi prevedibili. Qui nulla può essere previsto, o almeno non sempre, salvo poi a verificare (compito del lettore) che forse il contesto è diverso, il colore del tratto anche, ma la storia dell’uomo, la vicenda della vita, c’è tutta dentro, come prima, come sempre. Seppure attraverso il metodo complesso dello straniamento.
 
COPPE

PARCE SEPULTO

Davvero accattivante fin dalle prime battute il racconto Parce sepulto. Farebbe pensare a una spystory, a un episodio della malavita e invece, all’improvviso, un incontro fortuito in ascensore fa decollare la narrazione su un ben diverso piano, e, utilizzando la tecnica del flashback, recupera alla coscienza del suo interlocutore -proiezione vivente di un trapassato- la vita precedente conclusasi in modo tragico, lasciando dietro di sé un retaggio di extrasensorialità, come sempre la fantasia popolare crede nei casi di morte violenta. Ma basterà un rito, una sorta di purificazione e l’anima del defunto tornerà nella quiete, e lascerà tranquillamente funzionare il mezzo meccanico in cui è avvenuto il confronto rivelatore, decisivo della buona continuazione della vita. La vita che per l’ingegno di uno solo ha ripreso la sua corsa consueta, mentre gli altri protagonisti vengono trascinati nella routine alienante delle futili occupazioni. A proprio conforto il protagonista si tirerà su con una semplice bevuta di birra. Che sia una metafora? Che si voglia dare a intendere che la vita per essere degnamente vissuta ha bisogno di poche semplici cose? Se sì, l’espediente della vicenda, serio seppur grottescamente rappresentato, ci viene porto con un andamento spigliato, vivace e a tratti “irrobustito” da espressioni colorite.

L’ULTIMA MILONGA

Il racconto di Fabozzi conquista subito non tanto per la profondità della vicenda ma per lo stile semplice, dato che la semplicità è dote rara, quando non sia espressione di banalità. Le vicissitudini emotivamente coinvolgenti accompagnano il protagonista che passa dalla delusione al senso di colpa al terrore infine ad un’inattesa serenità che con un filo sottile d’ironia spinge l’uomo in quell’estremo frangente a desiderare di nuovo, daccapo, di poter praticare la sua danza preferita. Ma con qualche granello di sale in più. Non si sa mai.

TRIONFO DI SPECCHIA

Pur nella sua brevità risulta interessante l’espediente narrativo di A. P. Lombardo. Gioco delle parti che riporta al noto romanzo di O. Wilde, pur nelle variazioni tematiche e di struttura narrativa.
Il personaggio e la sua coscienza-specchio. Il dissidio tra l’essere e l’apparire, tra la percezione di sé e l’impressione che ne ricevono gli altri. Ma anche tra l’amore nella sua essenza e ciò che si crede sia l’amore: in realtà non è dato di saperlo…troppo vago, troppo sfuggente, troppo cangiante.
Infastidisce solo qualche periodo sospeso, qualche “licenza grammaticale” 

ORE 15

Un pretesto banale, quasi senza significato, in un impianto strutturale semplice, introduce in una situazione davvero simpatica, in modo a dir poco imbarazzante. In un racconto breve ma fluido, costruito in poche battute, pochi tratti, si nasconde il rischio di chi con tutte le forze della fantasia si sbarazza dello status quo per darsi a nuove avventure. Ma si sa, i diavoli fanno le pentole e non i coperchi.

DUE BOTTONI

Descrizione crepuscolare, bella anche se riprende i toni un po’ disfatti delle vite quando l’abulia la fa da padrona, quando l’entusiasmo e la positività sono come i brandelli di una camicetta mortificata da fiori scuri, specchio del disfacimento di un corpo e di una volontà. Forse di una vita appena raccattata in un fetido locale con una compagnia anch’essa poco allettante. Disfacimento anche della prosa che passa da un periodare fluido in prima o terza persona ad un “attacco” diretto all’ignaro interlocutore. Ma si sa, quando si è liberi dagli obblighi che sanno di antica imposizione scolastica, il ritmo della penna segue le evoluzioni delle più profonde suggestioni. Bene, ancora una volta, se il pensiero è chiaro. E qui niente passa inosservato: i più piccoli gesti, le più piccole miserevoli espressioni sono catturate dallo sguardo impietoso dell’io narrante, così come la descrizione degli ambienti e degli oggetti. Un acquerello un po’ comico, un po’ triste, ma con la vita dentro.

SPADE

CAMERA OSCURA

Molto bello questo insieme di scatti, pennellate docili e dolci, non senza striature di veleno. Colpisce la capacità pittorica delle descrizioni che si sviluppano in dettagli innanzitutto fisici, materiali, ma finanche in quelli immateriali sottesi alle parole, sottolineati dal contatto diretto con l’interlocutore immaginario, fino all’ultimo “scatto” in cui, senza parole, paradossalmente e tragicamente si chiude un dialogo tante volte fallito.

GRETA STRIZZA GLI OCCHI

Assolutamente interessante il racconto “Greta strizza gli occhi” per i numerosi risvolti che presenta: sdoppiamento di personalità, tentativo di vivere una vita parallela, lotta tra il bene e il male, tra la razionalità e l’irrazionalità, che hanno il loro riflesso nell’analogo sdoppiamento linguistico, sempre in bilico tra gergo e la lingua ufficiale. La deuteragonista, che è poi la protagonista nell’azione, una sorta di Alice alla rovescia, mette a segno delle “punizioni” per un estremo quanto fondamentale bisogno di affermazione di sé, di liberazione, attraverso azioni da incubo, degli incubi che ne divorano la psiche. E lo fa con l’arroganza di chi, sentendosi debole, cerca di strafare nei gesti come nel linguaggio, immediato e colorito, capace di esplodere intersecando il discorso diretto con quello indiretto in un affanno della prosa rivelatore dell’affanno psicologico della protagonista.
Le domande conclusive, artificiose o spia delle angosce dell’io narrante, sono un grido d’allarme, ancorché inventato, da placare con la rassicurazione che il racconto suscita tanta comprensione, tanta voglia di fugare i fantasmi della psiche, ma il sorriso sarcastico, sicuramente no, il racconto non lo suscita.

NERO LATTE

Lascia senza parole il racconto Nero latte, con uno stupore strano, in quanto dà la sensazione di un “conto” che si è voluto chiudere troppo in fretta. Peccato! All’inizio lasciava presagire cose interessanti, ma la curiosità è andata delusa. Troppa ovvietà a partire dalla metà del racconto, scene abusate e conclusione senza attrattiva, sebbene una morte faccia sempre pensare. Dobbiamo fare uno sforzo per entrare nell’animo del protagonista maschile e coglierne interni dissidi che si ricompongono, mentre sta per lasciare la vita, in un nome, quello della moglie lasciata a casa. Sarebbe troppo umiliante per lui pensare che non ricordi il nome di colei con cui ha bruciato l’ultima passione.

BINARIO MORTO

Conclusione dolente per un racconto bello, ben strutturato, modulato attraverso una gamma vasta di toni, da quelli scanzonati e tuttavia pacati dell’adolescenza ancora infanzia a quelli via via più intensi e striati di varie tinte dell’adolescenza matura, pronta a varcare la soglia della giovinezza. La prosa lodevolmente corretta, precisa e scorrevole risente ad un certo punto dell’intensificarsi delle emozioni, il che si evidenzia attraverso frasi sintatticamente non “allineate” che sbottano come grida o esplosioni di emozioni per aggrumarsi poi nei vocaboli del gergo colloquiale. Evidente anche il substrato culturale che rimanda a Verga, a Pasolini e ancora più indietro al celebre frammento di Saffo. Aleggia su tutto la capacità di empatia, più di una volta espressa con note di commiserazione e di pietà nei confronti dei Carusi. Così come è evidente la lotta tra il senso del dovere, malamente inteso in età giovanile, e il senso di responsabilità altrettanto malamente inteso il più delle volte a quell’età.
Si ha la sensazione che i protagonisti, pur senza volerlo, abbiano fatto una scelta di vita: quella di affidare alla strada/miniera l’iniziazione alla maturità. Ma come spesso succede, i conti non tornano: ed è sempre la vita ad insegnarlo, ad insegnare che spesso i sogni come i valori finiscono irrevocabilmente in un binario morto.

UN AMORE CHE BRUCIA

Alienazione, premonizione, predestinazione sembrano gli assi attorno a cui ruota la vicenda di “Amore che brucia”. La struttura tuttavia è labile, vacilla sotto il peso di una vicenda poco sviluppata e priva di intensità. Una storia di superficiale alienazione e basta. Non c’è azione, non c’è pathos. Forse orrido squallore. Il giudizio sul racconto non è giudizio sullo scrittore, ovviamente. Questione solo di gusti.
 
DENARI.

QUELLO CHE RIMASE DEL CIELO.

Tre singhiozzi, anzi un lamento e due singhiozzi spezzano il racconto di U. De Lorenzo.
L’ipocondria del vivere il proprio segmento di vita prima di incontrare chi la vita gliela spiegherà nel senso di dispiegargli la propria psiche, fa notare gli anfratti dove si nasconde l’io con le sue inclinazioni e le sue potenzialità. La conclusione circolare quasi è posta a suggellare il ritorno alla dimensione solitaria, dove la solitudine è condivisa dall’unica traccia “lasciata al mondo”: la figlia Laura.
Racconto immediato, spontaneo, essenziale nel tracciare il binario di una vita che si conclude in un tratto solitario ma almeno non privo di speranza.
 
DA CONSUMARSI PREFERIBILMENTE ENTRO L’ATTIMO APPENA TRASCORSO

La commozione che pervade il primo racconto manca nel secondo della sezione Denari.
Forse per scelta si vuole evidenziare la protervia della protagonista che tra desideri e rimpianti stenta a capire le ragioni e a indagare i motivi del suo stato. Occorre correre, lottare, affrontare il destino per non smarrire il senso del tempo che vive nel fluire di un attimo, il presente. Ho l’impressione che la protagonista si perda inutilmente nell’immobile silenzio del grigio senza brillare di una qualche luce propria.
 
VIRGINIA E LA SUA STANZA

Nel racconto “Virginia e la sua stanza” un andirivieni onirico, surreale consente all’io narrante di reificare la venerazione in oggetto e nello stesso tempo di divenire oggetto venerato insieme al suo “mito”. Forse è il desiderio di vivere attraverso di esso, come spesso succede nella vita quando i genitori cercano di colmare attraverso i figli i propri vuoti, e i figli di restare sempre adolescenti all’ombra di quelli, da cui occorre distaccarsi definitivamente in un doloroso ma necessario salto di qualità pena la rinuncia a conquistare la propria autonomia.

TRACCE DI IMPRONTE GRANITICHE

Nel racconto di Paola Corona la protagonista vive una situazione piuttosto debole dal punto di vista dell’invenzione, che parte da un evento visibilmente pretestuoso per poi abbandonarsi, in una prosa tuttavia lineare, alla descrizione di romantiche fantasticherie appena illuminata alla fine da un promettente guizzo di luce.

MA QUALE FALCE MA QUALE MARTELLO, PALETTA SECCHIELLO IL SIMBOLO PIU’ BELLO

Più divertente senz’altro il racconto di Ciasullo, benché senza pretese, che contestualizza in un dialogo-confronto padre-figlia, apparentemente banale, il simpatico e spesso privilegiato rapporto paterno con la prole femminile, il fare dolcemente tirannico di quest’ultima, il bagaglio di conoscenze trasmesse dal genitore fino a quando la corazza paterna cede miseramente di fronte agli interrogativi insistenti della bimba, a cui è difficile rispondere se se non si superino certi tabù e non ci si apra al dialogo anche su questioni tanto naturali quanto delicate. Sì, ma l’espressione gergale richiede molta più perizia dialettica; pertanto il papà dribbla brillantemente dirigendo la curiosità infantile verso più accattivanti e astrusi argomenti.
  
BASTONI

IL CIRCOLO DELLE QUINTE

Racconto zeppo di dottrina musicale dove spicca in una prosa fluida, nonostante l’accavallarsi di dati, la grande competenza dello scrittore e il grande amore per il mondo della musica, di quella sussurrata, gridata, e “martellata” dai migliori protagonisti. Forse a farne le spese è proprio il protagonista, Dylan, che risulta completamente schiacciato dalla ridondanza dei dettagli afferenti agli artisti citati. Pretestuosa la vicenda/occasione della narrazione, poco convincente. È fin troppo evidente l’esigenza dell’Autore di comunicare la sua preparazione in fatto di artisti della musica. Piuttosto è questa a farla da protagonista. Tuttavia il racconto risulta una miniera di informazioni e suggestioni per gli appassionati.

VER SACRUM

Senso di impotenza, sommesso sdegno per uno stato di cose che stenta a cessare e trova nella pessima tradizione, “traduzione” in suffragi elettorali dell’incolpevole ignoranza della gente che non sa o non può ribellarsi perché, in fondo, come si fa a ribellarsi a quello che si avverte come immutabile destino ancestrale, di verghiana memoria? La supina accettazione, supina ma non emotivamente piatta (il passaggio repentino da un tempo verbale all’altro lo testimonia) alla fine diventa la chiave di svolta che apre le porte ad un diverso percorso esistenziale; diverso poi?,  Chissà! La fortuna non tiene conto del merito e delle lauree!

SI È AMMAZZATO UNO

Stile disadorno, intermittente o meglio poco ordinato dove i pensieri si affastellano con pause artificiose, che non danno respiro, bensì finiscono col sovrapporre la riflessione all’azione: davvero in una sorta di autocritica, l’autore, l’io narrante, sostiene “scrivere è questa battaglia senza tregua, stanca, delusa, indesiderata…” Lo denota un senso di trasandatezza evidenziato dall’uso scarsissimo della punteggiatura, scelta stilistica peraltro accettabile, quando i pensieri almeno sono scanditi bene. Probabilmente ciò è voluto per conferire maggior senso di smarrimento al lettore. L’idea della morte volontaria è il leitmotiv di piani che s’intersecano ora scorrendo paralleli ora intrecciandosi fino a conseguire il buio della non comunicazione. Eppure isolato c’è qualche sprazzo di poesia. Strenuo il tentativo di dar senso, anche solo attraverso i ricordi, al nonsense della vita.

2958 KM (ESTATE 2004)

Alquanto ripetitivo, sempre lo stesso ritmo, monotòno, il racconto non appare incuriosire il lettore più di tanto. Solo alla fine l’allusione al duro lavoro del padre e la cicatrice che come lui si è procurata al lavoro, segno che la figura paterna è presente in lui come esempio da emulare,  imprime un guizzo e apre uno squarcio piacevole nei sentimenti finora dominati dalla tinta grigia della routine.

MAGGIO FIORENTINO

Entro una cornice emotivamente interessante  e le suggestioni originate da tristi ricordi della Storia si adagiano le storie minute, realistiche di chi quella maledizione l’ha evitata, ignaro di quel che sarebbe successo.
Scorre la vita di costoro in ossequio alle abitudini o ai bisogni quotidiani, sfuggendo miracolosamente all’estremo destino che beffardamente chiedeva il saldo ad altre ignare creature. Storie semplici, raccontate con apparente distacco, con il senso ovvio della quotidianità. Un mosaico di tessere per un attimo illuminate dalla luce sinistra del “fuoco nemico”.



domenica 10 giugno 2012

Parole e immagini da Oltrefrontiera

Questa sintesi video della presentazione di Oschi Loschi ad Avellino (presso Oltrefrontiera) rende l'atmosfera dotta e ironica che si è venuta a creare la sera del 1 giugno (con le letture dell'Associazione Culturale Iride, i contributi di Generoso Picone e di tutti gli intervenuti).
Un grazie immenso a Carlo Crescitelli per l'ideazione e l'assembleggio delle immagini.

sabato 2 giugno 2012

Loredana Fiore (Presidio del Libro di Avellino) su Oschi Loschi


Riportiamo l'intervento con il quale Loredana Fiore del Presidio del Libro di Avellino ha impreziosito la presentazione di Oschi Loschi presso Oltrefrontiera. Ringraziamo Loredana di tutte le belle e sentite parole che ha speso per la nostra antologia.




Ho letto Oschi Loschi tutto d’un fiato. Ogni racconto è diverso dall’altro e, credo proprio che, la loro forza risieda nella poliedricità e nella pluralità di una scrittura veicolata dall’immaginazione. Un tipo di Immaginazione con la I maiuscola che connota racconti che incuriosiscono, trasmettono suspence, commuovono e, a volte, divertono il lettore. Ciò che appare subito chiaro è la maturità nello stile di scrittura degli autori, anche per chi è al suo esordio. La raccolta è piena di echi della grande letteratura: si pensi a Vergineo con “Binario morto”, dove Giovanni Verga è sicuramente il riferimento primo e dove la disillusione prende il posto della spensieratezza nella vita del gruppo di ragazzi/adolescenti, protagonista del racconto. In Vergineo, l’amore, la stessa amicizia e la stessa vita non sono altro che un “binario morto”. E questa verità diventa tanto più atroce per il fatto che si manifesta prematuramente nella vita di quei ragazzi. Altro riferimento, questa volta, molto più diretto, è quello a Virginia Woolf nel racconto della Porrino. Il suo scritto è calzante, a tratti geniale. Il contesto onirico fa da scenografia all’anima della sua scrittura; rappresenta l’amore, quasi fosse un inno ad una scrittrice che ha scelto di ammazzarsi in uno dei modi più crudeli che non è quello semplicemente di buttarsi giù in acqua per annegare, ma è quello di riempirsi le tasche di pietre per avere la certezza di non risalire più in superficie. Poi, c’è “Quello che rimase del cielo” di Umberto Di Lorenzo. Questo racconto, molto sinceramente, mi ha commossa: ogni parola, mentre la leggevo, mi è entrata dentro. Il racconto, in sé, è delicato, profondo; è uno di quei racconti che non può far altro che rimanerti dentro. Oltre agli echi letterari, in questa raccolta, ci sono, anche se marginalmente, echi territoriali. C’è una terra che è la terra abitata dagli autori che è presente. E lo è sin dal titolo che dà il nome alla raccolta. Gli Oschi in quanto popolo connotano un territorio; l’aggettivo loschi evoca l’impressione del “voler fuggire” ma, la ripetizione di –oschi nell’aggettivo, è come se rendesse quegli Oschi (gli autori) Oschi due volte. Piacevole è l’associazione, il connubio tra la musica e le sezioni dei racconti in cui è diviso il libro. L’espediente della musica non è certo estraneo alla letteratura contemporanea; si pensi ad Haruki Murakami in cui la musica è quasi onnipresente. Vorrei concludere, innanzitutto, ringraziando il Presidio del Libro di Avellino che, da un anno e più ormai, è catapultato nell’esperienza del gruppo di lettura, esperienza estremamente preziosa, fonte di scambio per idee e cultura. Ringrazio gli autori di Oschi Loschi e faccio loro i miei complimenti per il progetto coraggioso realizzato. Infine, ringrazio chi ha permesso l’incontro di questa sera.

Oschi Loschi su Il Mattino del 31 maggio