Adriana Pedicini, già docente di lettere classiche del Liceo Classico "P. Giannone" di Benevento, ha pubblicato la raccolta di racconti "I luoghi della memoria" (Arduino Sacco Editore, 2011); suoi racconti e poesie sono presenti in diverse antologie. Scrive per blog e magazine on-line: Sul Romanzo, RomaCapitaleMagazine, Lib(e)roLibro, Arteinsieme.
A voi le sue impressioni dopo la lettura del nostro losco libercolo.
Antitesi e ossimori sono già nel
titolo della raccolta di racconti del volume di autori vari Oschi Loschi, dal
sottotitolo Racconti solidi come castelli di carta.
Ancora, la suddivisione in carte
di semi diversi vorrebbe tracciare dei confini in cui relegare i racconti
cinque per volta.
Ma capita che talvolta qualcuno
di essi esca fuori dalla norma, dallo status in cui è stato relegato.
Non si sa allora se ci si trovi
più di fronte a un dipinto di Botero o di fronte a un quadro di Modigliani con
i suoi colli esageratamente allungati.
Il dato certo è che qualunque sia
la tipologia della comunicazione narrativa ci troviamo (non sempre) di fronte a
una sorta di frattura degli schemi consueti, dei linguaggi sentiti come
obsoleti, delle strutture narrative ormai sorpassate, di regole linguistiche
asfissianti. Proprio questo rappresenta, parlando in generale, il pregio
dell’opera: originalità e voglia di sperimentare.
Intendiamoci: non ci troviamo di
fronte a racconti “alieni”, ma di fronte a racconti altri, diversi dalle storie
melliflue tanto amate dagli adolescenti di sempre, con situazioni scontate e
rassicuranti, con tratti narrativi prevedibili. Qui nulla può essere previsto,
o almeno non sempre, salvo poi a verificare (compito del lettore) che forse il
contesto è diverso, il colore del tratto anche, ma la storia dell’uomo, la
vicenda della vita, c’è tutta dentro, come prima, come sempre. Seppure
attraverso il metodo complesso dello straniamento.
COPPE
PARCE SEPULTO
Davvero accattivante fin dalle
prime battute il racconto Parce sepulto. Farebbe pensare a una spystory, a un
episodio della malavita e invece, all’improvviso, un incontro fortuito in
ascensore fa decollare la narrazione su un ben diverso piano, e, utilizzando la
tecnica del flashback, recupera alla coscienza del suo interlocutore
-proiezione vivente di un trapassato- la vita precedente conclusasi in modo
tragico, lasciando dietro di sé un retaggio di extrasensorialità, come sempre
la fantasia popolare crede nei casi di morte violenta. Ma basterà un rito, una
sorta di purificazione e l’anima del defunto tornerà nella quiete, e lascerà
tranquillamente funzionare il mezzo meccanico in cui è avvenuto il confronto
rivelatore, decisivo della buona continuazione della vita. La vita che per
l’ingegno di uno solo ha ripreso la sua corsa consueta, mentre gli altri
protagonisti vengono trascinati nella routine alienante delle futili
occupazioni. A proprio conforto il protagonista si tirerà su con una semplice
bevuta di birra. Che sia una metafora? Che si voglia dare a intendere che la
vita per essere degnamente vissuta ha bisogno di poche semplici cose? Se sì,
l’espediente della vicenda, serio seppur grottescamente rappresentato, ci viene
porto con un andamento spigliato, vivace e a tratti “irrobustito” da
espressioni colorite.
L’ULTIMA MILONGA
Il racconto di Fabozzi conquista
subito non tanto per la profondità della vicenda ma per lo stile semplice, dato
che la semplicità è dote rara, quando non sia espressione di banalità. Le
vicissitudini emotivamente coinvolgenti accompagnano il protagonista che passa
dalla delusione al senso di colpa al terrore infine ad un’inattesa serenità che
con un filo sottile d’ironia spinge l’uomo in quell’estremo frangente a
desiderare di nuovo, daccapo, di poter praticare la sua danza preferita. Ma con
qualche granello di sale in più. Non si sa mai.
TRIONFO DI SPECCHIA
Pur nella sua brevità risulta interessante
l’espediente narrativo di A. P. Lombardo. Gioco delle parti che riporta al noto
romanzo di O. Wilde, pur nelle variazioni tematiche e di struttura narrativa.
Il personaggio e la sua
coscienza-specchio. Il dissidio tra l’essere e l’apparire, tra la percezione di
sé e l’impressione che ne ricevono gli altri. Ma anche tra l’amore nella sua
essenza e ciò che si crede sia l’amore: in realtà non è dato di saperlo…troppo
vago, troppo sfuggente, troppo cangiante.
Infastidisce solo qualche periodo
sospeso, qualche “licenza grammaticale”
ORE 15
Un pretesto banale, quasi senza
significato, in un impianto strutturale semplice, introduce in una situazione
davvero simpatica, in modo a dir poco imbarazzante. In un racconto breve ma
fluido, costruito in poche battute, pochi tratti, si nasconde il rischio di chi
con tutte le forze della fantasia si sbarazza dello status quo per darsi a
nuove avventure. Ma si sa, i diavoli fanno le pentole e non i coperchi.
DUE BOTTONI
Descrizione crepuscolare, bella
anche se riprende i toni un po’ disfatti delle vite quando l’abulia la fa da
padrona, quando l’entusiasmo e la positività sono come i brandelli di una
camicetta mortificata da fiori scuri, specchio del disfacimento di un corpo e
di una volontà. Forse di una vita appena raccattata in un fetido locale con una
compagnia anch’essa poco allettante. Disfacimento anche della prosa che passa
da un periodare fluido in prima o terza persona ad un “attacco” diretto
all’ignaro interlocutore. Ma si sa, quando si è liberi dagli obblighi che sanno
di antica imposizione scolastica, il ritmo della penna segue le evoluzioni
delle più profonde suggestioni. Bene, ancora una volta, se il pensiero è
chiaro. E qui niente passa inosservato: i più piccoli gesti, le più piccole
miserevoli espressioni sono catturate dallo sguardo impietoso dell’io narrante,
così come la descrizione degli ambienti e degli oggetti. Un acquerello un po’
comico, un po’ triste, ma con la vita dentro.
SPADE
CAMERA OSCURA
Molto bello questo insieme di
scatti, pennellate docili e dolci, non senza striature di veleno. Colpisce la
capacità pittorica delle descrizioni che si sviluppano in dettagli innanzitutto
fisici, materiali, ma finanche in quelli immateriali sottesi alle parole,
sottolineati dal contatto diretto con l’interlocutore immaginario, fino all’ultimo
“scatto” in cui, senza parole, paradossalmente e tragicamente si chiude un
dialogo tante volte fallito.
GRETA STRIZZA GLI
OCCHI
Assolutamente interessante il
racconto “Greta strizza gli occhi” per i numerosi risvolti che presenta:
sdoppiamento di personalità, tentativo di vivere una vita parallela, lotta tra
il bene e il male, tra la razionalità e l’irrazionalità, che hanno il loro
riflesso nell’analogo sdoppiamento linguistico, sempre in bilico tra gergo e la
lingua ufficiale. La deuteragonista, che è poi la protagonista nell’azione, una
sorta di Alice alla rovescia, mette a segno delle “punizioni” per un estremo
quanto fondamentale bisogno di affermazione di sé, di liberazione, attraverso
azioni da incubo, degli incubi che ne divorano la psiche. E lo fa con
l’arroganza di chi, sentendosi debole, cerca di strafare nei gesti come nel
linguaggio, immediato e colorito, capace di esplodere intersecando il discorso
diretto con quello indiretto in un affanno della prosa rivelatore dell’affanno
psicologico della protagonista.
Le domande conclusive,
artificiose o spia delle angosce dell’io narrante, sono un grido d’allarme,
ancorché inventato, da placare con la rassicurazione che il racconto suscita
tanta comprensione, tanta voglia di fugare i fantasmi della psiche, ma il
sorriso sarcastico, sicuramente no, il racconto non lo suscita.
NERO LATTE
Lascia senza parole il racconto
Nero latte, con uno stupore strano, in quanto dà la sensazione di un “conto”
che si è voluto chiudere troppo in fretta. Peccato! All’inizio lasciava
presagire cose interessanti, ma la curiosità è andata delusa. Troppa ovvietà a
partire dalla metà del racconto, scene abusate e conclusione senza attrattiva,
sebbene una morte faccia sempre pensare. Dobbiamo fare uno sforzo per entrare
nell’animo del protagonista maschile e coglierne interni dissidi che si
ricompongono, mentre sta per lasciare la vita, in un nome, quello della moglie
lasciata a casa. Sarebbe troppo umiliante per lui pensare che non ricordi il
nome di colei con cui ha bruciato l’ultima passione.
BINARIO MORTO
Conclusione dolente per un
racconto bello, ben strutturato, modulato attraverso una gamma vasta di toni,
da quelli scanzonati e tuttavia pacati dell’adolescenza ancora infanzia a
quelli via via più intensi e striati di varie tinte dell’adolescenza matura,
pronta a varcare la soglia della giovinezza. La prosa lodevolmente corretta,
precisa e scorrevole risente ad un certo punto dell’intensificarsi delle
emozioni, il che si evidenzia attraverso frasi sintatticamente non “allineate”
che sbottano come grida o esplosioni di emozioni per aggrumarsi poi nei
vocaboli del gergo colloquiale. Evidente anche il substrato culturale che
rimanda a Verga, a Pasolini e ancora più indietro al celebre frammento di
Saffo. Aleggia su tutto la capacità di empatia, più di una volta espressa con
note di commiserazione e di pietà nei confronti dei Carusi. Così come è
evidente la lotta tra il senso del dovere, malamente inteso in età giovanile, e
il senso di responsabilità altrettanto malamente inteso il più delle volte a
quell’età.
Si ha la sensazione che i
protagonisti, pur senza volerlo, abbiano fatto una scelta di vita: quella di
affidare alla strada/miniera l’iniziazione alla maturità. Ma come spesso
succede, i conti non tornano: ed è sempre la vita ad insegnarlo, ad insegnare
che spesso i sogni come i valori finiscono irrevocabilmente in un binario
morto.
UN AMORE CHE BRUCIA
Alienazione, premonizione,
predestinazione sembrano gli assi attorno a cui ruota la vicenda di “Amore che
brucia”. La struttura tuttavia è labile, vacilla sotto il peso di una vicenda
poco sviluppata e priva di intensità. Una storia di superficiale alienazione e
basta. Non c’è azione, non c’è pathos. Forse orrido squallore. Il giudizio sul
racconto non è giudizio sullo scrittore, ovviamente. Questione solo di gusti.
DENARI.
QUELLO CHE RIMASE DEL
CIELO.
Tre singhiozzi, anzi un lamento e
due singhiozzi spezzano il racconto di U. De Lorenzo.
L’ipocondria del vivere il
proprio segmento di vita prima di incontrare chi la vita gliela spiegherà nel
senso di dispiegargli la propria psiche, fa notare gli anfratti dove si
nasconde l’io con le sue inclinazioni e le sue potenzialità. La conclusione
circolare quasi è posta a suggellare il ritorno alla dimensione solitaria, dove
la solitudine è condivisa dall’unica traccia “lasciata al mondo”: la figlia
Laura.
Racconto immediato, spontaneo,
essenziale nel tracciare il binario di una vita che si conclude in un tratto
solitario ma almeno non privo di speranza.
DA CONSUMARSI
PREFERIBILMENTE ENTRO L’ATTIMO APPENA TRASCORSO
La commozione che pervade il
primo racconto manca nel secondo della sezione Denari.
Forse per scelta si vuole
evidenziare la protervia della protagonista che tra desideri e rimpianti stenta
a capire le ragioni e a indagare i motivi del suo stato. Occorre correre,
lottare, affrontare il destino per non smarrire il senso del tempo che vive nel
fluire di un attimo, il presente. Ho l’impressione che la protagonista si perda
inutilmente nell’immobile silenzio del grigio senza brillare di una qualche
luce propria.
VIRGINIA E LA
SUA STANZA
Nel racconto “Virginia e la sua
stanza” un andirivieni onirico, surreale consente all’io narrante di reificare
la venerazione in oggetto e nello stesso tempo di divenire oggetto venerato insieme
al suo “mito”. Forse è il desiderio di vivere attraverso di esso, come spesso
succede nella vita quando i genitori cercano di colmare attraverso i figli i
propri vuoti, e i figli di restare sempre adolescenti all’ombra di quelli, da
cui occorre distaccarsi definitivamente in un doloroso ma necessario salto di
qualità pena la rinuncia a conquistare la propria autonomia.
TRACCE DI IMPRONTE
GRANITICHE
Nel racconto di Paola Corona la
protagonista vive una situazione piuttosto debole dal punto di vista
dell’invenzione, che parte da un evento visibilmente pretestuoso per poi
abbandonarsi, in una prosa tuttavia lineare, alla descrizione di romantiche
fantasticherie appena illuminata alla fine da un promettente guizzo di luce.
MA QUALE FALCE MA QUALE MARTELLO, PALETTA SECCHIELLO IL SIMBOLO PIU’ BELLO
Più divertente senz’altro il
racconto di Ciasullo, benché senza pretese, che contestualizza in un
dialogo-confronto padre-figlia, apparentemente banale, il simpatico e spesso
privilegiato rapporto paterno con la prole femminile, il fare dolcemente
tirannico di quest’ultima, il bagaglio di conoscenze trasmesse dal genitore
fino a quando la corazza paterna cede miseramente di fronte agli interrogativi
insistenti della bimba, a cui è difficile rispondere se se non si superino
certi tabù e non ci si apra al dialogo anche su questioni tanto naturali quanto
delicate. Sì, ma l’espressione gergale richiede molta più perizia dialettica;
pertanto il papà dribbla brillantemente dirigendo la curiosità infantile verso
più accattivanti e astrusi argomenti.
BASTONI
IL CIRCOLO DELLE
QUINTE
Racconto zeppo di dottrina
musicale dove spicca in una prosa fluida, nonostante l’accavallarsi di dati, la
grande competenza dello scrittore e il grande amore per il mondo della musica,
di quella sussurrata, gridata, e “martellata” dai migliori protagonisti. Forse
a farne le spese è proprio il protagonista, Dylan, che risulta completamente
schiacciato dalla ridondanza dei dettagli afferenti agli artisti citati. Pretestuosa
la vicenda/occasione della narrazione, poco convincente. È fin troppo evidente
l’esigenza dell’Autore di comunicare la sua preparazione in fatto di artisti
della musica. Piuttosto è questa a farla da protagonista. Tuttavia il racconto risulta
una miniera di informazioni e suggestioni per gli appassionati.
VER SACRUM
Senso di impotenza, sommesso
sdegno per uno stato di cose che stenta a cessare e trova nella pessima
tradizione, “traduzione” in suffragi elettorali dell’incolpevole ignoranza
della gente che non sa o non può ribellarsi perché, in fondo, come si fa a
ribellarsi a quello che si avverte come immutabile destino ancestrale, di
verghiana memoria? La supina accettazione, supina ma non emotivamente piatta
(il passaggio repentino da un tempo verbale all’altro lo testimonia) alla fine
diventa la chiave di svolta che apre le porte ad un diverso percorso
esistenziale; diverso poi?, Chissà! La
fortuna non tiene conto del merito e delle lauree!
SI È AMMAZZATO UNO
Stile disadorno, intermittente o
meglio poco ordinato dove i pensieri si affastellano con pause artificiose, che
non danno respiro, bensì finiscono col sovrapporre la riflessione all’azione:
davvero in una sorta di autocritica, l’autore, l’io narrante, sostiene
“scrivere è questa battaglia senza tregua, stanca, delusa, indesiderata…” Lo
denota un senso di trasandatezza evidenziato dall’uso scarsissimo della
punteggiatura, scelta stilistica peraltro accettabile, quando i pensieri almeno
sono scanditi bene. Probabilmente ciò è voluto per conferire maggior senso di
smarrimento al lettore. L’idea della morte volontaria è il leitmotiv di piani
che s’intersecano ora scorrendo paralleli ora intrecciandosi fino a conseguire
il buio della non comunicazione. Eppure isolato c’è qualche sprazzo di poesia.
Strenuo il tentativo di dar senso, anche solo attraverso i ricordi, al nonsense della vita.
2958 KM (ESTATE 2004)
Alquanto ripetitivo, sempre lo
stesso ritmo, monotòno, il racconto non appare incuriosire il lettore più di
tanto. Solo alla fine l’allusione al duro lavoro del padre e la cicatrice che
come lui si è procurata al lavoro, segno che la figura paterna è presente in
lui come esempio da emulare, imprime un
guizzo e apre uno squarcio piacevole nei sentimenti finora dominati dalla tinta
grigia della routine.
MAGGIO FIORENTINO
Entro una cornice emotivamente
interessante e le suggestioni originate
da tristi ricordi della Storia si
adagiano le storie minute, realistiche di chi quella maledizione l’ha evitata,
ignaro di quel che sarebbe successo.
Scorre la vita di costoro in
ossequio alle abitudini o ai bisogni quotidiani, sfuggendo miracolosamente
all’estremo destino che beffardamente chiedeva il saldo ad altre ignare
creature. Storie semplici, raccontate con apparente distacco, con il senso
ovvio della quotidianità. Un mosaico di tessere per un attimo illuminate dalla
luce sinistra del “fuoco nemico”.