"Storie
per attaccar bottone" è la terza raccolta di racconti degli
Oschi Loschi, giovani autori locali, in prevalenza beneventani, che abbiamo già
avuto modo di conoscere ed apprezzare in un precedente incontro qui a Cerreto
qualche tempo fa. Curatore dell’opera è il bravo Flavio Ignelzi, il quale con
maestrìa e genialità ha raccolto e selezionato i 18 racconti che compongono il
libro, presentando il meglio della narrativa osca contemporanea. Il libro è
edito dalla Never Mind di Maria Elena Napodano alla quale la letteratura
sannita deve molto, in quanto ella continua, a dispetto delle difficoltà
dell’editoria attuale, a credere che valga la pena far conoscere ciò che, nella
nostra terra, è degno di essere notato, sia per qualità, sia per specificità. Una
visione assolutamente condivisibile. Un libro non ha valore soltanto perché ha
successo, ma soprattutto perché, come uno scrigno, conserva per sempre i
pensieri, le parole, le emozioni, le intuizioni più belle dell’umanità.
Il titolo dell’opera è
chiaramente una provocazione al lettore. Attaccar bottone, come ben spiega
Fausto Raso, è un’espressione che nasce in campo medico. Infatti anticamente i
medici per cauterizzare le ferite adoperavano uno strumento di ferro, la cui
estremità terminava con una pallottola simile a un bottone, a cui si dava
fuoco, Il paziente a cui veniva attaccato il bottone, sicuramente provava un
dolore molto intenso, sebbene per pochi secondi. In seguito la locuzione
“attaccar bottone” dal campo medico passò, in senso figurato, al significato di
parlare male di qualcuno e, infine, col tempo acquistò il significato di
affliggere una persona, cioè costringerlo a sopportare un discorso lungo e
noioso.
Il richiamo alla satira
9 del libro primo delle satire di Orazio, poeta latino, è quanto mai naturale.
Infatti la satira 9, detta dello seccatore o dello scocciatore, è una vivace
scenetta che vede lo stesso Orazio passeggiare tranquillo per le vie di Roma, quando
ad un tratto si imbatte in un suo conoscente, che gli si attacca come una zecca
per sommergerlo di chiacchiere e per convincerlo ad introdurlo nel circolo di
Mecenate. Il povero Orazio comincia a sudare freddo, tenta in tutti i modi di
liberarsi, ma è tutto inutile, lo scocciatore lo segue per ore. Infine il poeta
viene salvato provvidenzialmente da un tizio che trascina il seccatore in
tribunale.
Ma, a
differenza di Orazio, i lettori di questa bella raccolta di racconti, non si
opporranno di certo agli autori che vogliono attaccar bottoni con loro. Tutt’altro.
Le storie che andiamo a presentare non sono per nulla ciance noiose ma piccoli
capolavori di scrittura piacevolissimi, da gustare fino in fondo. Ancora una
volta, grazie a questa opera, possiamo apprezzare il valore del racconto, un genere
letterario che ha il pregio di riuscire a contenere la più alta concentrazione di
significati e abilità che un autore riesce a trasmettere.
Il primo attaccabottoni
è Valerio Vestoso, con il suo racconto dal titolo innocuo di "Sabatino", un personaggio sospeso tra
desiderio e realtà. Un sassofonista che suona alle feste di gente noiosa ed
annoiata. Un musicista che non sopporta lo sbadiglio del pubblico e che sogna
di fare un viaggio senza ritorno, lontano, oltre quella ovvietà provinciale,
lontano da una moglie che aveva preso ad ingrassare già sull’altare il giorno
delle nozze. Lontano, a Malibù, una terra dove i sassofonisti sono patrimonio
dell’umanità e vengono rispettati e venerati. Malibù dove il mare è senza
confini. Malibù, dove non esistono sbadigli, i nemici spregiudicati del
musicista live. Lo stile è essenziale. L’autore spesso si avvale del
soliloquio, una formula perfetta per avvicinare il lettore ai pensieri del
protagonista.
E poi, tanto per
restare in tema di musica, ecco "Fur
Elise" di Giuseppe Guarino. Il racconto è un bel ritratto, dalle pennellate decise.
Potrebbe intitolarsi: la ragazza al pianoforte. Le dita scorrono sui tasti e
dagli occhi di Leda sgorgano desideri nascosti. Il viso è dolce, ma
l’espressione è velata dall’ambiguità. L’amore è egoismo? L’amore può essere
una vendetta a lungo perseguita? Le note di Per Elisa sgorgano dal quadro,
cariche di ribellione, frecce dolorose per il povero Rob. L’autore ha saputo
concentrare in modo molto equilibrato la evoluzione interiore della
protagonista, riuscendo a stupire il lettore per un finale davvero originale.
Collettivo Calamano,
alias Ernesto Razzano e Marcello Serino, sperimentano un genere originale, il
racconto a quattro mani. "L’intervista
definitiva" è il titolo della storia. Da una parte c’è un artista ritratto
nei suoi pensieri, o meglio nelle sue finzioni, mentre aspetta di essere
intervistato. Dall’altra c’è l’intervistatore, ritratto anche lui nelle sue
paure e incertezze. Due figure quasi speculari. Due esistenze in bilico tra
l’essere e il dover essere. Un’angoscia a volte mediata solo dal whisky e dalla
consapevolezza dell’inutilità dei gesti. Traspare in entrambi i personaggi una
sorta di alienazione, di male di vivere, che porta in superficie una mistura di
sentimenti aggrovigliati e irrisolti.
Alessandro Paolo
Lombardo ci trasporta nel mondo del web con il suo "Proplay Contrast. La regola". Nel racconto l’angoscia, l’alienazione
di Achtung, alle prese con parole confuse e distorte: proplay contrast. A volte
davvero una password dimenticata può portarti sull’orlo della disperazione.
Soprattutto se hai una madre che ti nasconde la sua età o una nonna impostata
sulla funzione zucchero. E soprattutto se Acta, la tua donna, non ne vuol
sapere di svegliarsi, per darti una mano. Un bel bozzetto sui grandi e piccoli
drammi che ci offre quotidianamente l’amico computer. Frizzante il linguaggio
ricco di neologismi.
"Una macchia di bianco" è
lo scritto di Marco Di Meola, un giovanissimo scrittore e poeta cerretese che
non è più tra noi, ma che del suo pur breve viaggio, ha lasciato un’impronta
indelebile nella sua terra. Ha amato la parola, l’ha piegata alla sua
sensibilità profonda, e in essa e con essa ha cercato e indagato fortemente il
senso del viaggio. Un senso forse troppo nascosto sotto la coltre massiccia
delle apparenze, delle incongruenze, delle illogicità. A noi ha lasciato i suoi
pensieri, le sue emozioni fissate nei versi e nelle righe della sua prosa, come
consolazione agli interrogativi irrisolti, alle ansie mai sopite. Nel
personaggio di Giorgio troviamo l’attaccamento ai valori di un passato lontano,
alle piccole bellezze note del suo borgo, all’ingenuità di un vissuto ormai
scomparso. D’un tratto la violenza inaspettatamente entra nella sua lenta
quotidianità. Resteranno le lacrime a testimonianza di un’innocenza perduta per
sempre. E poi però c’è l’amicizia vera, quella che aiuta a continuare quella
che ti interroga e ti costringe a riflettere con domande come: perché continuare
a scrivere sempre con aggressività, violenza e colori forti? C’è un tempo per
combattere e un tempo per deporre le armi. E quest’ultimo è il momento nel
quale è necessaria una spennellata, una macchia bianca da far asciugare, per
poi sperimentare i toni pastello. Grazie Marco, per averci provato.
Il racconto di Massimo
Varchione si intitola "Ossa". La forma
è assolutamente originale, come lo svolgimento che si avvale del linguaggio
della chat. I risvolti erotici, anche un po’ osé, sono un intelligente
espediente per celare un finale davvero sorprendente e assolutamente inatteso.
Un bell’esempio di scrittura innovativa, adatta al genere del racconto.
Con "Carne di famiglia", Ursula Iannone offre
una prova di bella scrittura. Il racconto, infatti, presenta uno stile un po’
sospeso tra piani diversi: ricordi, sogni, premonizioni. La stessa mostruosità dei
fatti si tinge di allucinazione, di immaginifico e di reale. Le memorie si
mescolano agli incubi, la dimensione onirica si carica di simboli premonitori.
Sui colori descritti prevale il rosso: quello della foglia di acero, del
cappottino rosso, delle gocce di sangue. E al centro della scena c’è un muro,
a trasferire forza alla gracilità malata del protagonista. È difficile vivere
quando si arriva a comprenderne la spregiudicata bellezza.
"Stralci
Inediti di Cronache Celesti" è il racconto di Ferdinando
Silvestri, che trasporta il lettore in una dimensione astrale, fra le nebulose
di Orione, alla ricerca degli dei o di Dio, sempre che questi abbia voglia di
occuparsi del cosmo. L’importante è che nell’universo ci sia la luce, la pace.
A mio avviso la storia risente della passione dell’autore per i fumetti.
Infatti le sue parole disegnano immagini di grande effetto. Il racconto ha i
connotati della fantascienza, trasporta il lettore verso orizzonti universali,
a distanze siderali dal pianeta terra. In un luogo senza tempo, da dove Dio
sorridendo osserva la scena.
Giovanni Vergineo con il
suo racconto dal titolo esplicito "Pippe", scaraventa, con crudo realismo, il lettore
nel mondo degli adolescenti delle generazioni pre-internet, quando soddisfare i
bisogni sessuali era un vero atto di eroismo. Occorreva procurarsi il materiale
giusto in edicola, sfidando le occhiatacce della giornalaia, per comprare
riviste e cassette VHS anche per gli amici. Poi occorreva salvare l’onore e se
arrivavano i genitori, inaspettatamente, bisognava liberarsi subito del corpo
del reato. Fu così che la cassetta dei sogni volò dalla finestra, nell’erba di
un terreno abbandonato, dietro casa. Recuperarla non sarebbe stato facile.
Avrebbe richiesto il coraggio di addentrarsi in un luogo sconosciuto, ricco di
pericoli. Il racconto è una metafora? Rappresenta il limbo da attraversare per
diventare uomini? Certamente l’incontro che i protagonisti hanno faccia a faccia
è con la realtà più crudele. E l’attraversamento della selva suggerisce una
sorta di rito di iniziazione verso l’età adulta. Infatti, alla fine, puntuale
arriva la sentenza: “io con il porno ho chiuso”. Il ritmo del racconto è
incalzante, le descrizioni e gli ambienti sono cinematografici. Un delizioso
affresco di un tempo non lontano, che ha già il sapore del passato.
Alessandro Caporaso è
l’autore del racconto "Dr. Hinkfuss",
un tuffo nei ricordi giovanili: le aule della scuola, i personaggi come Parola,
il compagno che non parlava mai, gli odori delle professoresse, le lunghe
penombre, foto in bianco e nero appese ai muri dei corridoi. E poi Alice, i
suoi capelli biondi, l’emozione del fare l’amore con lei di pomeriggio, lì sul
banco. E un finale sorprendente, inaspettato. La scenografia: un terrazzo sul
quale c’erano solo antenne per la televisione, piccioni e caldo. Un caldo
insopportabile. Il racconto alterna pezzi di presente e di passato, in
un’altalena fra ricordi, emozioni e ferite recenti. È il grumo dell’esistenza. È
la voglia di libertà dei personaggi che li spinge ribellarsi Questa sera,
dottor Hinkfuss, si recita a soggetto! Avrebbe detto Pirandello.
"Del lupo e dell’uomo" è la storia di Emanuele Corbo. L’eterna
lotta tra il mondo animale e quello dell’uomo è descritta con un meticoloso
incedere degli eventi. A scandire i giorni della vendetta del lupo verso l’uomo
crudele sono l’alternarsi nel cielo di un disco d’argento e di un disco d’oro.
Lupo uccide solo se minacciato. L’uomo ammazza un suo simile anche solo per
supremazia o per diletto. Molto interessante in questo racconto semplice,
delizioso immerso in un’atmosfera assolutamente naturale, l’operazione che
l’autore fa di transfert di sentimenti umani all’animale e della ferinità
all’uomo. Un modo antico (Esopo, Fedro) ma nello stesso tempo originale di costringere
a riflettere sui nostri peggiori vizi. Lo stile è scorrevole e piacevole.
Il racconto, intitolato
"Non c’è viola senza spine", dell’aquilano
Alessio Paolucci ha un incipit idilliaco, con una descrizione agreste molto
ricca di colori, quasi un quadro impressionista. Uno spirito panico sembra
pervadere la figura umana immersa in tanta lussureggiante natura. Ma “non c’è
viola senza spine” E così il velo delicato di un paesaggio incantato viene
squarciato da una inaspettata sorpresa. L’entrata in scena di un personaggio
selvatico, sorprende il lettore e lo catapulta in un’atmosfera tutt’altro che sognante.
Stridente e sorprendente l’accostamento, in questa storia delle descrizioni
naturali, delicate, minuziose, colorate, all’entrata in scena di personaggi con
caratteristiche rustiche e anche per certi versi comiche. Alla fine, però,
l’amore salva tutto.
Giovanni Rossi è
l’autore di "Diario di cantina", un
bel racconto breve, molto intenso e originale, focalizzato su due personaggi,
due amanti chiusi in una cantina, e sulle loro emozioni, colti ad uno snodo
importante della loro storia. La scrittura molto compatta riesce a coinvolgere
il lettore in un crescendo di emozioni, ben dosate, senza eccessi. Lodevole la
sapienza dell’architettura della storia, ridotta all’essenza, ma capace di
rimandi ad infinite suggestioni. Anche il finale è sorprendente, inaspettato.
L’autore ha saputo concentrare un coacervo di sentimenti in poche scene,
peraltro concentrate in un solo piccolo spazio. Una sperimentazione
riuscitissima.
"Il
secondo respiro", di Alfredo Martinelli, ha il sapore di
una storia surreale nella sua drammaticità. Costruito su due livelli, quello
reale e quello immaginifico, poi sapientemente alternati, anzi mescolati in
giuste dosi, il racconto acquista un’aura di assoluta singolarità. Il
protagonista vive un’esperienza terrificante che cambierà il suo rapporto con
la vita. Tutto sembra frutto di un’esperienza fantasiosa. Ma, a volte, la
realtà può essere più mostruosa dell’immaginazione. Lo svolgimento della storia
è avvincente, caratterizzato da un continuo crescendo, che abbandona il lettore
solo allo scioglimento finale.
"In provincia non succede mai niente" di Antonio Furno è
ambientato a Benevento. Il protagonista, l’ingegnere informatico Cavuoto,
lavora per le poste italiane. Servizio notturno. Sorveglia container pieni di
server con vari processori e macchine virtuali. In provincia non succede mai
nulla. Tutto sembra scorrere sempre monotonamente. E invece a volte l’apparenza
inganna. In un mondo assolutamente globalizzato, anche i gesti compiuti da un uomo
in un territorio sperduto procurano conseguenze formidabili altrove. Nessun
uomo è un’isola, scrive John Donne. E questo racconto ce lo dimostra nel modo
più simpatico e divertente possibile.
"Scacco
matto", di Marialaura Orlando è un delizioso cammeo. Caterina, una fanciulla resa fragile da un passato tragico, trova il suo
riscatto nel gioco degli scacchi. È un racconto molto delicato, lineare,
costruito sapientemente. L’autrice ha saputo alternare immagini forti e morbide
pennellate di colore, senza mai alterare l’equilibrio della trama. Il risultato
è un coinvolgimento totale del lettore, che viene catturato dallo svolgimento
accattivante. Si può non sapere di sapere? Forse sì, quando un ricordo è così
ben nascosto da non ricordarlo più.
Filippo Ciasullo è
l’autore di "Arturo Bandini Cucciniello",
un altro bel racconto della raccolta, divertente e ironico, brillante e
seducente. Protagonista l’autore stesso, apparentemente una specie di simpatica
canaglia un po’ beneventano, un pò avellinese, ma in realtà un sapiente
tessitore di immagini lievi e riflessioni coinvolgenti, soprattutto quelle
dedicate agli alberi. Il lettore avrà l’impressione, leggendo, di passeggiare
per le strade di Avellino, con un amico estroverso, della cui compagnia non
vorrà più privarsi.
Chiude la raccolta il
racconto di Maria Pia Selvaggio, "Le sette
ore", liberamente ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto a Telese nel
1969. La penna tagliente dell’autrice schizza il profilo del personaggio
protagonista, con tratti precisi ed essenziali, senza sbavature. Ogni parola,
come una scheggia, trafigge l’immaginazione del lettore, con la violenza di un
crudo realismo, coinvolgendolo in un lungo spasimo. Ora dopo ora, si consuma il
dramma di un’intera esistenza, tra delirio e pazzia, violenza e allucinazione.
È un racconto avvincente, non solo per il contenuto, ma anche per la bella
scrittura, lo stile asciutto, il lessico ricercato. E per la grande capacità di
affabulazione dell’autrice, che giustamente si definisce una punta di coltello
che apre, strappa, richiude e va via.